public speaking e sindrome da debutto
Parlare in pubblico per molti ha a che fare con mani che sudano, arti tremolanti, occhi che vagano atterriti per la sala, batticuore, fifa blu. Con gradi diversi di gravità che talvolta fanno annoverare questa esperienza fra le meno piacevoli.
Ma perché, pur essendo preparati, il cervello si annebbia e le parole non vengono?
Quasi sicuramente la ragione è che ci siamo preparati, anche molto accuratamente, in un ambiente asettico, privo di emotività, limitando la nostra preparazione ai soli tragitti mentali dell’esposizione. Improvvisamente, nel momento della “performance”, ci troviamo immersi in un contesto altamente emotivo, condizionato da fruitori che con la loro semplice presenza aspettano di essere coinvolti. In quel momento, in modo del tutto naturale, l’emozione chiama in causa il corpo, modificando respirazione, battito cardiaco, coordinamento motorio, rilascio di particolari sostanze chimiche (ad esempio l’adrenalina).
E’ evidente che questo “innescarsi” del corpo causato dall’emotività è un fattore di disturbo, per un’esposizione nata come progetto mentale.
Ecco perché una sensibilità glaciale riesce a mantenere più facilmente l’organizzazione mentale. Ma non sarà mai un’oratore emozionante e trascinante. Così come chi tenta di difendersi dall’emozione del parlare in pubblico creando “abituazione” (ad esempio ripetendo moltissime volte il discorso): tenderà comunque a separarsi dallo spazio comunicativo. In entrambi i casi viene a mancare il fattore fondamentale della relazione.
Prepararsi a comunicare davanti ad una platea significa dunque mantenere costantemente attivi ed integrati corpo, mente ed emozione. Senza questa azione integrata è impossibile immaginare una comunicazione autentica .
Ma perché, pur essendo preparati, il cervello si annebbia e le parole non vengono?
Quasi sicuramente la ragione è che ci siamo preparati, anche molto accuratamente, in un ambiente asettico, privo di emotività, limitando la nostra preparazione ai soli tragitti mentali dell’esposizione. Improvvisamente, nel momento della “performance”, ci troviamo immersi in un contesto altamente emotivo, condizionato da fruitori che con la loro semplice presenza aspettano di essere coinvolti. In quel momento, in modo del tutto naturale, l’emozione chiama in causa il corpo, modificando respirazione, battito cardiaco, coordinamento motorio, rilascio di particolari sostanze chimiche (ad esempio l’adrenalina).
E’ evidente che questo “innescarsi” del corpo causato dall’emotività è un fattore di disturbo, per un’esposizione nata come progetto mentale.
Ecco perché una sensibilità glaciale riesce a mantenere più facilmente l’organizzazione mentale. Ma non sarà mai un’oratore emozionante e trascinante. Così come chi tenta di difendersi dall’emozione del parlare in pubblico creando “abituazione” (ad esempio ripetendo moltissime volte il discorso): tenderà comunque a separarsi dallo spazio comunicativo. In entrambi i casi viene a mancare il fattore fondamentale della relazione.
Prepararsi a comunicare davanti ad una platea significa dunque mantenere costantemente attivi ed integrati corpo, mente ed emozione. Senza questa azione integrata è impossibile immaginare una comunicazione autentica .
2 Commenti:
...naaaa, non potrei cavarmela di fronte a una platea! erano anni che non davo un esame orale. era da tempo che non sperimentavo la sensazione adrenalinica di dover esporre quello che so ed inventarmi quello che non so. Di glaciale nella mia esposizione non ho trovato nulla; nello sguardo del docente invece c'era l'Antartide. Ma alla fine l'ho sciolto con una gaffe megagalattica: gli ho comunicato con convinzione che il popolo tedesco dopo il trattato del 1919 si sentiva "torteggiato". Scandalizzato lo storico in questione mi ha reso partecipe dell'inesistenza del verbo "torteggiare"... ed io gli feci notare, con un certo disappunto, che mi sentivo appunto "torteggiata" da tale chiusura nei confronti di un linguaggio giovane, in continua evoluzione e che sarebbe stata senza dubbio auspicabile un aggiornamento costante delle moderne terminologie, sopratutto quando si rivelano decisamente esplicative di uno stato emotivo proprio della nuova generazione... insomma, negli anni 60 si sarebbe detto che lo stavo accusando di essere un "matusa". Esendo lui un probabile militante delle rivolte studentesche dell'epoca, suppongo di avergli fatto simpatia. Portò le sue domande verso un argomento a lui probabilmente più caro: mi chiese della collettivizzazione delle proprietà... non avevo studiato quella parte del programma, ma mi lanciai in un' accorata difesa dello stato socialista, condannando nel contempo i governi totalitari... mentre parlavo mi rendevo conto di non dire nulla e tutto, come sto facendo ora del resto. Mi fissò a lungo e poi mi disse con sguardo impenetrabile: "è bello girarci attorno, ma con me non attacca...". Peccato, ero convinta che con lui poteva attaccare. La cosa che mi fa tuttora riflettere di tutto ciò non è tanto il misero 20 che mi rifilò sul libretto, quanto il fatto che mi ero sinceramente divertita. Uscendo ero elettrizzata e probabilmente avevo un sorriso un po' da rinco...ta stampato sulla faccia. Che si tratti appunto dell'effetto adrenalinico? Oppure del fatto che avevo la consapevolezza che avrei potuto fare moooolto, ma moooolto meglio e che dovevo, dopo molti anni, averne semplicemente conferma?? Mi verrebbe voglia di dare subito un altro esame e infatti mi sa che è meglio mantenere viva questa cosa finchè dura; magari è la volta che mi laureo. Magari la prossima volta mentre sentirò la mia voce tremolante, riuscirò a non pensare: cacchio, ho la voce che sembra un martello pneumatico..." Vediamo cosa riuscirò a fare in futuro. Voi avete ricette?
Con la voce "tremolante" ci presentiamo in campo nemico, chiedendo di essere risparmiati, pregando che il nemico sia clemente... E' chiaro che c'è un'ambiguità di fondo. O non giochiamo un gioco a cui non ci interessa giocare, oppure abbracciamo le sue regole e vediamo cosa succede. Comunque sia per la nostra "incolumità" è bene comprendere che il mondo degli uomini è un gioco e i giochi hanno regole. Essere accettati, essere socialmente adeguati, socialmente necessari è un gioco. Essere individui sani non è un gioco, è la nostra natura profonda. L'ambiguità è farsi forti delle leggi della natura per criticare il gioco. Non uso una montagna per criticare i grattacieli. Entro nel gioco dei grattacieli e vedo cosa posso fare. Se è questo che mi va di fare. Altrimenti rimango in montagna a contemplare l'indicibile. Le ricette sarebbero due: o ululare alla luna o prendere trenta e lode. La nostra scommessa (un po' funambolica) è attuarle insieme.
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